De André (nato a Genova il 18 febbraio del 1940) è stato definito moderno trovatore dal cuore antico, poeta del piccolo pentagramma, folksinger dei poveri derelitti, della vita vera nei suoi dolori e nelle sue ingiustizie, l’aedo, il poeta che ha simbolizzato gli anni sessanta, la contestazione, la rabbia malinconica, la ricerca di nuove musicalità e parole: queste definizioni sono quanto mai vere, attuali e condivise anche a distanza di quattordici anni dalla sua morte avvenuta nel gennaio del 1999.
In occasione del suo funerale, Don Andrea Gallo, “prete di strada” recentemente scomparso, così lo salutava:
<<Caro Faber,
da tanti anni canto con te, per dare voce agli ultimi, ai vinti, ai fragili, ai perdenti. Canto con te e con tanti ragazzi in Comunità.
Quanti «Geordie» o «Michè», «Marinella» o «Bocca di Rosa» vivono accanto a me, nella mia città di mare che è anche la tua. Anch’io ogni giorno, come prete, «verso il vino e spezzo il pane per chi ha sete e fame». Tu, Faber, mi hai insegnato a distribuirlo, non solo tra le mura del Tempio, ma per le strade, nei vicoli più oscuri, nell’esclusione.
E ho scoperto con te, camminando in via del Campo, che «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».
La tua morte ci ha migliorati, Faber, come sa fare l’intelligenza.
Abbiamo riscoperto tutta la tua «antologia dell’amore», una profonda inquietudine dello spirito che coincide con l’aspirazione alla libertà.
E soprattutto, il tuo ricordo, le tue canzoni, ci stimolano ad andare avanti.
Caro Faber, tu non ci sei più ma restano gli emarginati, i pregiudizi, i diversi, restano l’ignoranza, l’arroganza, il potere, l’indifferenza.
La Comunità di San Benedetto ha aperto una porta in città. Nel 1971, mentre ascoltavamo il tuo album Tutti morimmo a stento, in Comunità bussavano tanti personaggi derelitti e abbandonati: impiccati, migranti, tossicomani, suicidi, adolescenti traviate, bimbi impazziti per l’esplosione atomica.
Il tuo album ci lasciò una traccia indelebile. In quel tuo racconto crudo e dolente (che era ed è la nostra vita quotidiana) abbiamo intravisto una tenue parola di speranza, perché, come dicevi nella canzone, alla solitudine può seguire l’amore, come a ogni inverno segue la primavera. E’ vero, Faber, di loro, degli esclusi, dei loro «occhi troppo belli», la mia Comunità si sente parte. Loro sanno essere i nostri occhi belli.
Caro Faber, grazie!
Ti abbiamo lasciato cantando Storia di un impiegato, Canzone di Maggio. Ci sembrano troppo attuali. Ti sentiamo oggi così vicino, così stretto a noi. Grazie.
E se credete ora
che tutto sia come prima
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti,
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.
Caro Faber, parli all’uomo, amando l’uomo. Stringi la mano al cuore e svegli il dubbio che Dio esista.
Grazie. Le ragazze e i ragazzi con don Andrea Gallo, prete da marciapiede>>.
E sempre don Andrea Gallo unisce Fabrizio De André con Fernanda Pivano facendo riferimento alla nona beatitudine del Discorso della montagna di Gesù:
Porta Ticinese – Milano
Il ritratto di Don Gallo da quest’anno vicino a Fabrizio De Andrè.
Dagli anni ’60 ad oggi la voce di Fabrizio de André non ha perso il suo valore ed il suo potere di speranza e di denuncia, di solidarietà e compassione, di rispetto per la dignità dell’uomo, pur nella sofferenza della vita. Egli ha cantato, trasponendoli in chiave poetica, la diversità, il dolore, l’ingiustizia, le emozioni ed i sentimenti, rendendoli eterni così come solo la poesia sa fare.
A chi gli chiedeva se egli si ritenesse un poeta o un cantautore, Fabrizio de André, con il carattere intenso e schivo da facili elogi ed entusiasmi che lo caratterizza, rispondeva che egli preferiva definirsi cantautore ed affermava: «Benedetto Croce diceva che fino all’età dei diciotto anni tutti scrivono poesie e che, da quest’età in poi, ci sono solo due categorie di persone che continuano a scrivere: i poeti e i cretini. E quindi io, precauzionalmente, preferisco definirmi un cantautore». E ancora:<<No, non sono un poeta. La poesia è un mestiere, ma non il mio. Io cerco soltanto di gettare un ponte tra la poesia e la canzone>>.
Il suo realismo poetico si è evidenziato sin dalla prima canzone che lo ha fatto conoscere al grande pubblico, anche grazie alla splendida interpretazione di Mina del 1968, la Canzone di Marinella: in quella canzone egli ha reso eterna la protagonista di un brutto fatto di cronaca, un femminicidio allora poco denunciato, letto sulla cronaca nera di un quotidiano genovese, ed egli, allora poco più che ventenne, ha regalato alla vittima un futuro che la vita non poteva più garantirle e <<dal fiume la portò sopra una stella>>.
Molti si sono chiesti se De André credeva in Dio ed egli stesso ha dato risposte differenti ma, di fatto, già con “Preghiera in gennaio”, canzone poco nota del suo primo album, dedicata all’amico suicida Luigi Tenco, egli dà una speranza di amore e di perdono anche ai suicidi, allora puniti anche dalla Chiesa con il diniego dei sacramenti, affermando che Dio accoglierà anche i suicidi <<perché non c’è l’inferno nel mondo del Buon Dio>> e ancora <<signori benpensanti spero non vi dispiaccia se in cielo, in mezzo ai Santi, Dio tra le sue braccia soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte. Dio di misericordia il tuo bel Paradiso l’hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso, per quelli che han vissuto con la coscienza pura, l’inferno esiste solo per chi ne ha paura.>>
Per De André tutti hanno diritto ad essere consolati e anche la descrizione del dolore e della morte si vestono sempre di una speranza che assume, talvolta a sua stessa insaputa, una dimensione metafisica e religiosa. Questo viene dimostrato nell’album “La Buona novella”, il disco che lo stesso De André considerava “il più riuscito”, tratto dai Vangeli apocrifi, in cui l’annuncio del Salvatore si trasforma in atto di fede laica, in cui il “ladrone” Tito prova dolore per la morte di Gesù, o dove “Il pescatore”, rispondendo alla richiesta di aiuto del ladro in fuga, “versò il vino e spezzò il pane per chi diceva ho sete e fame”, o, ancora, nella canzone “Si faceva chiamare Gesù”, dove Gesù, visto come uomo, viene rappresentato come “venuto da molto lontano a convertire bestie e gente/non si può dire non sia servito a niente perché prese la terra per mano, vestito di sabbia e di bianco alcuni lo dissero santo per altri ebbe meno virtù si faceva chiamare Gesù”. Radio Vaticana, nonostante la forte componente laica, amava trasmetterla.
La sua ispirazione è religiosa nel senso più profondo del termine e nella splendida canzone “Inverno” egli descrive con pennellate altamente poetiche un paesaggio invernale dove la vita e la morte, il presente il passato ed il futuro sembrano congiungersi e la terra e la vita dell’uomo diventano quasi tutt’uno: <<Sale la nebbia sui prati bianchi/come un cipresso sui camposanti,/un campanile che non sembra vero segna il confine tra la terra e il cielo./Ma tu che vai, ma tu rimani, vedrai la neve se ne andrà domani/rifioriranno le gioie passate col vento caldo di un’altra estate. Anche la luce sembra morire nell’ombra incerta di un divenire dove anche l’alba diventa sera e i volti sembrano teschi di cera./Ma tu che vai, ma tu rimani anche la neve morirà domani, l’amore ancora ci passerà vicino nella stagione del biancospino. La terra stanca sotto la neve dorme il silenzio di un sonno greve, l’inverno raccoglie la sua fatica di mille secoli, da un’alba antica./Ma tu che stai, perché rimani? Un altro inverno tornerà domani, cadrà altra neve a consolare i campi, cadrà altra neve sui camposanti.>>
Dolore e sofferenza si intersecano con il rinnovamento e con l’amore, nell’avvicendarsi della vita, senza mai perdere la speranza, la terra stanca è quasi consolata dalla neve che la ricopre e all’apparente stasi della vita, affaticata dalla sofferenza, De André dà il conforto del rifiorire delle gioie passate, mentre all’ombra incerta dell’eterno flusso che caratterizza il divenire della vita egli offre la speranza e la consolante certezza dell’amore che <<passerà vicino nella stagione del biancospino>>.
De André ha dato ai personaggi che hanno popolato le sue poesie/canzoni una dignità desiderata che la vita ha loro negato ed una eternità che egli stesso avvertiva dovesse esistere in qualche modo ma che, intanto, egli ha regalato, soprattutto agli ultimi della terra con le sue parole e le sue note.
De André è stato ed è il simbolo più autentico dell’inclusione e della necessità di “fare scoppiare la pace nel mondo”, così come ha con forza richiesto Papa Francesco, è stato ed è la voce che molti non riescono ad avere, egli ha dato la voce a chi è stato e sta in silenzio, a chi non vuole o non sa chiedere aiuto, e Ella e Kate, Joe e Sam, Jones, Franziska, Piero, un Generale di vent’anni, che sono solo alcuni degli “eroi” di Fabrizio De André, personaggi e storie legate all’amore, alla guerra, alla religione, alla vita quotidiana che hanno sempre popolato la poetica del grande cantautore. Storie e figure di uomini e donne che “non hanno vinto” ma che, proprio per questo, sono state fonte primaria di ispirazione del cantautore-poeta.
Sul piano più propriamente artistico culturale, facendo riferimento a quanto espresso da Claudio Fabretti, giornalista ed esperto di musica contemporanea, Fabrizio De André è uno dei capisaldi della canzone d’autore italiana, ha fatto riferimento, facendoli propri ai temi ed agli stili degli autori più importanti d’oltre Oceano (Bob Dylan e Leonard Cohen), degli autori francesi, come George Brassens, ha infranto i dogmi della canzone italiana degli anni ’60 con le sue ballate affollate di anime perse, emarginati e derelitti di ogni angolo del mondo: <<Il suo canzoniere universale attinge alle fonti più disparate: dalle ballate medievali alla tradizione provenzale, dall'"Antologia di Spoon River" ai canti dei pastori sardi, da Cecco Angiolieri ai Vangeli apocrifi, dai "Fiori del male" di Baudelaire al Fellini dei "Vitelloni". Temi che negli anni si sono accompagnati a un'evoluzione musicale intelligente, mai incline alle facili mode e ai compromessi. De André usava il linguaggio di un poeta non allineato, ricorrendo alla forza dissacrante dell’ironia […] Il suo è un disperato messaggio di libertà e di riscatto. […] Di lui, Mario Luzi, uno dei maggiori poeti del Novecento, ha detto:”De André è veramente lo chansonnier per eccellenza, un artista che si realizza proprio nell’ipertestualità tra testo letterario e testo musicale. >>.
La sua visione totale della vita e della realtà lo ha portato anche a valorizzare i dialetti, riconoscimento avuto anche con l’assegnazione del Premio Govi, perché egli riteneva che “in una nazione giovane come l’Italia i dialetti sono indispensabili, rappresentano un desiderio di identificazione nelle proprie radici”. Con Creuza de ma scritto completamente in genovese, “l’idioma neolatino più ricco di fonemi arabi”, raggiunge il momento più alto del suo canto elevato per pennellare Genova, con il suo profumo, i suoi esclusi, i suoi abitanti della Città vecchia che egli ha tanto amato, e della sua esaltazione della potenza espressiva del dialetto.
Proprio questo amore per le culture più forti lo ha portato in Sardegna dove fu rapito insieme alla compagna Dori Ghezzi ma anche in questo caso egli trasformò poeticamente i suoi carcerieri attribuendo loro una identità diversa: nelle sue canzoni i malviventi diventano “marinai di foresta” o indiani Sioux, oppressi e oppressori nello stesso tempo. Coerentemente con il suo modo di interpretare l’animo umano, poi, egli riuscì a perdonarli.
Nel 1996 scrisse e compose, in collaborazione con Ivano Fossati, il suo testamento musicale, “Anime salve” definito “un viaggio pieno di suggestioni, sapori incontri, un percorso affollato di spiriti solitari che abitano angoli appartati della Terra e che esprime la condizione dell’isolamento visto come la condizione che permette, così come egli stesso affermava, “di non essere contaminati da passioni di parte, uno stato di tranquillità dell’animo che permette di abbandonarsi all’assoluto”.
Nel 2005 fu pubblicato, post mortem, In direzione ostinata e contraria, musica e testi che raccolgono i suoi quarant’anni di carriera, la storia di un uomo, poeta e cantautore che affermava: <<Penso che il fine della canzone sia quello, se non proprio di insegnare, almeno di indicare delle strade da seguire, dei codici di comportamento ed è l’unico motivo che mi fa pensare che questo sia un mestiere serio >>.